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Perché non accolgo più praticanti nel mio studio

Perché non accolgo più praticanti nel mio studio

Ricevo frequentemente email di neolaureati in giurisprudenza che mi chiedono di compiere la pratica forense nel mio studio.

Rispondo a tutti, spiegando perché non posso accogliere la richiesta. A volte in modo sintetico, a volte in modo più dettagliato, e comunque impiegando una quantità non trascurabile del mio tempo, perché mi metto nei loro panni e mi comporto nei loro confronti come vorrei che si comportassero loro con me, a parti invertite.

Attendo ancora di ricevere una email di risposta, nella quale mi si dica: grazie lo stesso. Grazie di aver speso qualche minuto per leggere la mia email e per rispondermi.

Poiché oggi fare l’avvocato richiede più che mai una gestione oculata del proprio tempo, ritengo opportuno, a partire da oggi, evitare le risposte personalizzate.

Rispondere devo rispondere: me lo impone l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori ed insegnanti. Non tratterò pertanto le richieste di aspiranti praticanti come lo spam che ricevo quotidianamente e che cancello in tempo zero.

Però da oggi rispondo con un link a questo articolo. Rispondo una volta per tutte, perché le ragioni sono sempre quelle che espongo sotto, e preferisco esporle in modo dettagliato ed onesto. Forse in tal modo riesco persino a prevenire qualcuna di quelle richieste, perché magari qualche aspirante praticante si dà la pena di dare un’occhiata al mio sito prima di trasmettermi la richiesta.

Ora provate voi a mettervi per un attimo nei miei panni. Chiedetevi che interesse potrebbe avere un avvocato ad accogliervi nel suo studio.

Se siete abbastanza onesti, vi rispondereste che accogliereste un/una praticante se pensaste di aver bisogno di lui/lei.

Gran parte del lavoro che fa un avvocato nel corso di una giornata è ripetitivo, noioso e poco gratificante. Potrebbe farlo anche una persona non laureata in giurisprudenza. A maggior ragione, quindi, una persona laureata in giurisprudenza.

Perciò è ragionevole che un avvocato faccia questo calcolo: faccio fare il lavoraccio ad un neolaureato, ed io mi concentro sul lavoro che richiede competenza ed esperienza. In cambio do al tapino quattro soldi (quando glieli do), ma soprattutto la possibilità di avere un certificato di compiuta pratica, e quindi di sostenere l’esame per diventare avvocato.

A me questo non interessa.

Da molti anni ormai ho scelto di fare personalmente tutto il lavoro, compreso quindi quello “sporco”, normalmente destinato ai praticanti. Confesso che mi piace fare questo lavoro esattamente come quello più qualificato, e lo faccio cercando di raggiungere la perfezione.

Potrei dire che lo considero un esercizio di umiltà, e sotto certi aspetti non sarebbe neppure sbagliato. Voglio però essere sincero: a me non interessa essere virtuoso, bensì essere felice. Per raggiungere questo risultato, cerco di farmi piacere tutte le cose che faccio, a partire da quelle considerate meno piacevoli.

Non puoi essere felice se fai un lavoro che non ti piace.

D’altra parte, difficilmente potrai raggiungere l’eccellenza in un lavoro che non ti piace.

Io aspiro ad essere un avvocato eccellente, e ritengo che non potrò mai soddisfare questa aspirazione, se non avrò il controllo di tutta la mia catena produttiva.

Anche se fossi Carnelutti (e sicuramente non lo sono), a mio sommesso avviso avrei ancora bisogno, per diventare un avvocato eccellente, di conoscere alla perfezione, ad esempio, tutti i segreti delle cancellerie: quando conviene mettersi in fila, quando conviene ripassare, come impiegare il tempo che si trascorre nell’attesa, e così via.

Io non sono un industriale dell’avvocatura. Sono un artigiano. Non mi interessa essere a capo di una multinazionale con cento avvocati alle mie dipendenze.

Se ho bisogno di una sostituzione in udienza, chiedo la cortesia ad un collega di studio, o ad uno dei tanti colleghi con i quali ho rapporti cordiali. Se si tratta di una cortesia che richiede un impegno oneroso, pattuisco un compenso per il collega che delego a compiere un’attività.

In sostanza, non ho alcun bisogno di un praticante.

Il discorso potrebbe finire qui, ma l’occasione è buona per trattare un paio di argomenti laterali.

La pratica legale è una cosa seria. Non è una formalità posta tra la laurea in giurisprudenza e l’esame di avvocato. E’ un’attività che dovrebbe mettere in condizione una persona laureata in giurisprudenza di iniziare a svolgere l’attività di avvocato in modo dignitoso. Chi accoglie un praticante deve essere in grado di dedicargli spazio e tempo. A me scarseggiano l’uno e l’altro. D’altra parte, avrei difficoltà a scorgere buone ragioni per dedicare tempo prezioso ad insegnare il mio lavoro a qualcuno che, se le cose andranno bene, diventerà un mio concorrente in un mercato sempre più difficile. Sono cose che di norma si fanno solo per i propri figli, se proprio non se ne può fare a meno.

Già, perché oggi molti avvocati si chiedono se sia conveniente per i loro figli continuare l’attività dei genitori. Molti colleghi con i quali ho discusso di questo argomento ritengono che, tra le professioni legali, quella dell’avvocato sia la meno vantaggiosa. Perciò sognano per i figli laureati in giurisprudenza carriere alternative: notaio, magistrato, dirigente della pubblica amministrazione.

Dal punto di vista economico, in effetti, la professione di avvocato non offre da tempo le stesse prospettive che offriva sino a dieci anni fa. Si tratta di un mercato nel quale l’offerta è cresciuta a dismisura, mentre la domanda tende da tempo a diminuire.

Anche il prestigio della professione si è notevolmente affievolito. Non so quali ne siano le cause, ma mi sembra probabile che tra le principali di esse vi siano il sensibile aumento del numero degli avvocati e verosimilmente il deteriorarsi della loro qualità media.

Di tutto questo credo che la maggior parte degli aspiranti praticanti siano consapevoli in minima parte. Lo scoprono dopo, quando ormai è troppo tardi.

Mi piace allora pensare che, quando dico di no ad un neolaureato che vorrebbe fare la pratica forense presso il mio studio, in fondo gli sto facendo un favore, anche se egli non lo sa.

Questo però non lo dico a nessuno, perché detesto essere paternalista.

Ognuno è libero (si fa per dire) di andare incontro al suo destino.

Se io oggi mi laureassi in giurisprudenza e fossi seriamente determinato a diventare un avvocato, pur non avendo un amico o un parente disposto a farmi da dominus, farei come ha fatto un mio giovane amico: andrei all’ordine degli avvocati più vicino e chiederei se hanno un elenco di avvocati disposti ad accogliere praticanti nel loro studio. Se volete avere un’idea di come potrebbe andare a finire, potete leggere il brano riportato qui.