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Primo contributo ad una riforma sensata della giustizia civile, scritto da un avvocato di provincia

Primo contributo ad una riforma sensata della giustizia civile, scritto da un avvocato di provincia

Si avvicinano le elezioni politiche, e fioccano sul web i programmi degli aspiranti presidenti del consiglio dei ministri.

Io non mi interesso di politica a questi livelli, però mi piace leggere la parte di tali programmi che riguarda la giustizia, vale a dire il settore nel quale lavoro da più di venti anni e sul quale, pertanto, ho sviluppato un minimo di esperienza e di competenza.

Ciò che ho letto sinora è semplicemente imbarazzante. Nel migliore dei casi si propongono pannicelli caldi.

La cosa tragica è che poi qualcuno di questi va al governo, con la collaborazione della maggioranza parlamentare che si porta dietro mette mano per la centesima volta al codice di procedura civile, e nella migliore delle ipotesi il risultato è: pannicelli caldi. Ed è grasso che cola.

Il processo civile è in agonia. Se ancora non è morto del tutto, lo si deve a prassi virtuose nate dalla collaborazione degli operatori della giustizia: avvocati, magistrati, cancellieri, impiegati, ufficiali giudiziari. La maggioranza degli appartenenti a ciascuna di queste categorie conosce bene lo stato disastroso della giustizia, e fa quello che può per evitare lo sfascio totale. Se ciascuno facesse solo quello che gli compete in base alle norme in vigore, la paralisi sarebbe assicurata in tempi rapidissimi.

La mia opinione, perciò, è che le disfunzioni della giustizia non derivino dall’inettitudine dei suoi operatori. Al contrario: è l’abnegazione della maggior parte di essi che sinora ha impedito il disfacimento del nostro sistema giudiziario.

Bisognerebbe allora smetterla con questi patetici programmi di riforma della giustizia che individuano gli untori (magistrati fannulloni e/o politicizzati, avvocati ladri e imbroglioni, etc.) e poi indicano come soluzioni provvedimenti diretti a colpirli.

Il problema dovrebbe essere affrontato in termini asettici, e non col populismo infantile dei programmi elettorali: come si può raggiungere la massima efficienza del sistema giustizia?

Per efficienza intendo il rapporto tra risultato e risorse disponibili.

A parità di risorse, è più efficiente il sistema che assicura un migliore risultato. Quest’ultimo, a sua volta, va valutato in termini quantitativi e qualitativi. Non svilupperò l’argomento, dando per presupposto che abbiamo un criterio per valutare globalmente quello che possiamo chiamare l’output del sistema giudiziario.

Le cause le decidono i giudici. I giudici sono quelli che sono, e ovviamente lo stesso vale per chi collabora con i giudici.

La prima cosa che mi viene in mente è questa: se libero i giudici e i loro collaboratori da incombenze non indispensabili alla produzione delle decisioni, la quantità e/o (meglio ‘e’, ovviamente) la qualità delle decisioni dovrebbe aumentare.

Sembra una cosa banale, ma ho il sospetto che il problema sia stato assai sottovalutato dai legislatori degli ultimi decenni. Chi si è affannato a fissare per i giudici i termini “derisori” previsti in gran copia dal codice di procedura civile temo non abbia capito nulla. A che serve, ad esempio, il termine di cinque giorni previsto dall’art. 415 comma 2 cpc? Mi fermo qui perché non voglio sfondare porte aperte.

Vediamo allora se nel percorso che va dall’introduzione della causa alla sua decisione vi siano “stazioni” che possano essere eliminate senza danno per la bontà della decisione.

Mi sembra strano che tra i cervelloni che hanno elaborato le mirabili riforme dell’ultimo ventennio, nessuno si sia accorto dell’assoluta inutilità delle udienze di trattazione. Eppure questa dovrebbe essere ben conosciuta sia dalle decine di migliaia di avvocati che ogni mattina perdono ore per chie­dere l’assegnazione dei termini ex art. 183 comma 6 cpc, o l’am­mis­sio­ne dei mezzi istruttori dedotti, o l’accoglimento delle conclusioni già formulate; sia dai giudici che su tali richieste devono ogni mattina deliberare, assediati da orde di avvocati vocianti.

L’udienza di trattazione è un orpello che non ci possiamo più permettere. A che pro costringere gli impiegati di cancelleria a fare avanti e indietro con i faldoni dei fascicoli, quando tutto ciò che viene fatto in quell’udienza può essere fatto dagli avvocati inviando un’email da una casella di posta elettronica certificata e dai giudici scrivendo un’ordinanza di poche righe da comunicare con lo stesso mezzo?

Tenuto conto di questo, io il processo civile ordinario lo organizzerei più o meno così (l’idea non è originale, ma si ispira in qualche misura a quella del defunto processo societario).

Chi vuole proporre una domanda in giudizio incarica un avvocato, il quale, per via telematica, deposita un ricorso nella cancelleria del giudice ritenuto competente, nel quale precisa, in nome del cliente: 1) chi è; 2) che cosa vuole; 3) in forza di quali norme giuridiche e di quali fatti; 4) nei confronti di chi; 5) con quali mezzi istruttori propone di dimostrare i fatti allegati sub 3). Il ricorso viene assegnato, in base a criteri automatici, ad un singolo giudice (basta collegio in primo grado: non ce lo possiamo più permettere), sulla cui scrivania (digitale) finirà il ricorso con tutti i documenti allegati. Il giudice esaminerà il ricorso, e valuterà se esso sia ammissibile, in senso lato: se sussista la giurisdizione del giudice ordinario; se sia stato proposto davanti al giudice competente; se siano verificate eventuali condizioni di pro­cedibilità previste dalla legge; se siano in vigore le norme invocate del ricorrente; se in base a dette norme debbano essere accolte le conclusioni del ricorrente, dan­do per veri i fatti da lui allegati; se i mezzi istruttori dedotti dal ricorrente siano astrattamente idonei a dimostrare tali fatti. Questo, se vogliamo, lo possiamo chiamare un filtro: serve ad evitare che sia scomodata una controparte con una domanda destinata a non andare da nessuna parte. Se il giudice individua un difetto, lo segnala al ricorrente, invitandolo, ove ritenuto possibile, ad emendare o integrare il ricorso originario. Se vogliamo essere pignoli, possiamo anche stabilire una penalità per il ricorrente che vuole andare avanti dopo questo primo passaggio a vuoto: per esempio, il pagamento di una certa frazione del contributo unificato per l’iscrizione a ruolo della causa.

Una volta che il ricorso supera il filtro, il giudice autorizza il ricorrente a notificarlo alla controparte. Quest’ultima, opportunamente avvertita, avrà un certo tempo dopo la notifica per costituirsi in giudizio, rappresentata da un avvocato, il quale, con atto notificato al difensore avversario tramite posta elettronica certificata, farà tutto quello che deve fare oggi un convenuto almeno venti giorni prima della prima udienza (che nel mio progetto ovviamente non esiste più). Il convenuto dovrà esplicare tutte le sue difese, inclusa la deduzione di mezzi istruttori. L’attore, preso atto delle difese del convenuto, potrà conseguentemente modificare conclusioni e richieste istruttorie, e lo stesso potrà fare il convenuto, sempre entro termini prestabiliti. Il ping-pong tra le parti andrà avanti sino a quando una di esse, ritenuto di non dover più modificare conclusioni e richieste istruttorie, ovvero preso atto che ciò non è stato fatto dalla controparte entro il termine stabilito, si rivolgerà al giudice, sempre per via telematica, chiedendo l’ammissione dei mezzi istrut­tori (ovvero la decisione della causa, se nessuno tali mezzi ha dedotto). Il giudice prenderà senz’altro in esame, a quel punto, le ultime ri­chie­ste istruttorie di entrambe le parti, decidendo su di esse e fissando un’u­dien­za per l’esaurimento della prova. Quella sarà di regola l’unica udienza della causa. Meglio un’unica udienza per fare due interrogatori formali ed escutere dieci testimoni, piuttosto che una miriade di microudienze istruttorie che costringono giudice e avvocati a ristudiarsi da capo dieci volte la cau­sa. Se ci sarà da nominare un consulente tecnico, ciò sarà fatto per via telematica, senza inutili giuramenti e ferma restando la responsabilità del consulente. Se costui non deposita la relazione entro il termine assegnato o non ne chiede il prolungamento allegando una valida giustificazione, viene senz’altro esautorato, condannato a restituire gli eventuali acconti ricevuti con provvedimento immediatamente esecutivo, ed inibito da futuri incarichi su tutto il territorio nazionale (lasciatemi dire che questo scandalo dei consulenti che fanno il comodo loro prima o poi dovrà pur finire).

Esaurita la fase istruttoria, il fascicolo digitale della causa andrà direttamente nella casella delle cause da decidere, senza inutili udienze di pre­ci­sa­zione delle conclusioni, e il giudice dovrà scrivere la sentenza in forma sintetica: premessa di diritto, premessa di fatto, decisione.

Bisognerà ovviamente inserire in questo meccanismo il regolamento dei noti incidenti di percorso: eventuale chiamata di terzi, integrazione del contraddittorio, intervento volontario, etc.

Ovvio che in appello si possa a fare a meno di qualunque udienza: l’ap­pel­lante trasmette l’appello per via telematica al difensore avversario e alla cancelleria, l’av­ver­sario replica entro un certo termine, l’appellante replica a sua volta e così via, sino a quando qualcuno si astiene dal replicare e la causa può essere tenuta a decisione, che potrà arrivare a sorpresa in qualunque momento. Così perlomeno evitiamo di comparire davanti alla corte d’appello per sentirci dire che l’udienza di precisazione delle conclusioni si terrà nel 2017 (con scongiuri di tutti i comparenti).

Non so se questo sarebbe molto o poco. Di sicuro sarebbe qualcosa di concreto, e naturalmente sarebbe solo l’inizio. Con l’aiuto di tanti di coloro che vivono tutti i giorni nel mondo della giustizia potrebbe diventare un nuovo codice di procedura civile, più adatto alla giustizia del ventunesimo secolo.