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Che cosa unisce l’Unione Europea?

Che cosa unisce l’Unione Europea?

Un fortunato libro di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, si intitola “L’Euro. Come una moneta minaccia il futuro dell’Europa”.

In questo libro, più citato che letto, Stiglitz afferma che «invece di unire l’Europa, l’Euro e le regole europee hanno portato stagnazione e divergenza, i ricchi si sono arricchiti e i poveri impoveriti».

Questa affermazione, certamente significativa, considerata l’autorevolezza di chi l’ha formulata, riguarda solo l’aspetto economico della crisi.

Vi è però un aspetto politico, ed è tutt’altro che secondario.

Oggi l’Unione Europea si presenta, e viene percepita, come una mostruosa sovra­strut­tura, nella quale il potere legislativo è distribuito in modo complicato tra vari organi, dei quali solo uno (il parlamento europeo) è composto da membri eletti direttamente dai cittadini, e decisioni fondamentali per la vita di questi ultimi sono presi dalla Banca Centrale Europea, ente con personalità giuridica autonoma il cui scopo principale consiste nel controllo dell’andamento dei prezzi (a differenza della Federal Reserve americana, che ad esso affianca quello di promuovere la piena occupazione).

Le manifestazioni più visibili dell’Unione consistono nel controllo del rispetto dei vincoli di bilancio da parte degli Stati membri. Rispetto, l’esigenza del quale viene ripetuta in modo ossessivo dai commissari europei, nonché dai ministri dell’economia dei Paesi del Nord (quelli ricchi).

Si tratta pertanto di un’organizzazione, allo stato, della quale è difficile stabilire il grado di democraticità, e che, soprattutto a partire dalla creazione della Zona Euro, non è sembrata particolarmente brillante nel promuovere il benessere dei cittadini degli Stati membri.

Questo spiega, sia pure succintamente, la scarsa popolarità della quale gode oggi l’Unione.

Esprimo, altrettanto succintamente, la mia non richiesta opinione su quel che l’Italia potrebbe e dovrebbe fare.

Sull’onda dell’impressione suscitata dalla cosiddetta Brexit, in Italia è nato un partito virtuale (non rappresentato da alcun partito politico) dei sostenitori dell’Italexit, i quali vor­rebbero abbandonare, costi quello che costi, Unione Europea ed Euro, recu­pe­rando interamente la sovranità dell’Italia, compresa quella monetaria.

Ad esso si contrappone il partito di coloro che vorrebbero una maggiore integrazione europea, con ulteriori cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali all’Unione Europea. Ad esso corrisponde un partito politico, sia pure dal consenso elettorale modesto, che si chiama +Europa.

Penso che questi due partiti abbiano entrambi ragione, nel senso che ora preciserò.

Aver voluto spingere sull’integrazione economica, senza una corrispondente inte­grazione politica, si è rivelato senz’altro un errore. Stiglitz, come tanti altri autori meno prestigiosi, ne ha evidenziato le conseguenze negative, a partire da quella ricordata sopra: «i ricchi si sono arricchiti e i poveri impoveriti».

Tra i poveri, nostro malgrado, ci siano noi. Perciò il problema ce lo dobbiamo porre con particolare urgenza.

Noi siamo in mezzo ad un guado. Se non vogliamo annegare, dobbiamo guadagnare la riva opposta, o tornare in quella dalla quale siamo venuti.

Dovremmo onestamente riconoscere che non è affatto conveniente, per noi, accettare di restare in un’Unione priva di regole comuni abbastanza stringenti in determinate materie, come ad esempio fisco, lavoro, previdenza. Questo ci obbliga a subire la con­cor­renza sleale di Stati che praticano forme di dumping sociale e fiscale, con conseguenze dannose per le fasce sociali più deboli tra i cittadini dell’Unione, e non solo di quelle degli Stati più poveri.

Si tratta però di cambiamenti sui quali è difficile trovare un ampio consenso nell’Unione Europea. Potremmo sbattere i pugni sul tavolo sinché vogliamo, con l’unico risultato di farci sbeffeggiare dai Paesi che hanno interesse a mantenere lo status quo.

D’altra parte, uscire dall’Unione, ed ovviamente dall’Euro, ha costi difficilmente valutabili, che nel breve periodo potrebbero diventare particolarmente difficili da sostenere. Oggi, purtroppo, a trattenerci nell’Unione è più la paura della sofferenza conseguente all’uscita che la speranza di un radioso futuro europeo. Ecco perché, al di là di estemporanei slogan, oggi in Italia nessuno dei partiti tradizionali appoggia aperta­mente questa soluzione.

Se la scelta dipendesse da me, la questione sarebbe sottoposta a referendum popolare. Perché una scelta così fondamentale, se si prende sul serio la democrazia, dovrebbe essere lasciata al popolo italiano.

Servirebbe una legge costituzionale per farlo, e solo il fatto di cominciare a discuterne avrebbe dei costi, in termini di aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico.

Penso però che l’Italia avrebbe risorse sufficienti per sopravvivere, e che un’eventuale scelta di distacco dall’Europa potrebbe pagare nel lungo periodo (non prima di dieci o vent’anni). Esiste vita — magari più dignitosa — anche fuori dall’Unione Europea, e il Regno Unito ce lo dimostrerà presto, come ce lo dimostra da sempre un grande Paese come il Giappone. Certo, bisognerebbe fare tutto il più rapidamente possibile e sotto la guida di economisti di livello mondiale, che forse in Italia oggi non ci sono.

È uno scenario che mi sembra assai improbabile, esattamente come quello degli Stati del Nord che si rassegnano ad introdurre nell’Unione Europea una componente di solidarietà oggi assente. Penso sia più probabile che, avendone l’occasione, detti Stati ci infliggano un’umiliazione come quella patita dai greci.

Credo perciò che occorrerà rassegnarsi a proseguire l’attuale (mediocre) percorso, magari cercando di farlo meglio di quanto abbiamo fatto in passato.

Occorrerà, in particolare:

1) farci rappresentare nelle istituzioni europee da politici e tecnici di valore elevato, molto più elevato di quello raggiunto sino ad ora;

2) studiare nel miglior modo possibile, a livello sia nazionale che locale, le istituzioni europee, al fine di trarre il massimo vantaggio possibile dall’appartenenza all’Unione e alla Zona Euro;

ma soprattutto

3) migliorarci per quanto è possibile nei settori nei quali siamo tradizionalmente deboli (a partire dalla giustizia e dalla burocrazia), in modo da diventare più competitivi, avvicinandoci per quanto possibile agli standard dei Paesi del Nord.

Se riusciremo a fare tutto questo, miglioreremo la situazione dell’Italia, ma non incideremo sulle ragioni politiche dell’insoddisfazione diffusa nei confronti dell’Unione Europea, ragioni in forza delle quali molti sostengono che il cosiddetto Sogno Europeo è ormai tramontato.

Per far rivivere quel sogno, non resta che collaborare con gli altri Stati dell’Unione, a partire da quelli ricchi, nell’individuare e applicare politiche che ne assicurino la prosperità e promuovano la solidarietà al suo interno.

Per usare le parole di Stiglitz, tratte dal libro citato sopra: «l’Europa deve ritrovare lo slancio dei fini nobili che si era prefissa alla nascita dell’Unione».