Il mongoloide
- Febbraio 28th, 2014
- Agostino Mario Mela
- Raccontini
- 0 Comments
Omero era un uomo di mezza età che viveva in un paese del centro della Sardegna.
Aveva un unico figlio, nato con la sindrome di Down.
In paese qualcuno gli aveva perciò affibbiato un soprannome impietoso: Il mongoloide.
Omero aveva avuto una vita difficile, e sopportò anche questo.
Quando suo figlio cominciò a frequentare la scuola, egli andava a prenderlo all’uscita. Allora lavorava in paese come manovale. Mentre i suoi compagni di lavoro smaltivano il ricco pranzo portato nella borsa frigo, bagnato da mezzo litro di vino rosso cadauno, egli si allontanava mangiando un panino, prelevava suo figlio e lo accompagnava a casa, per poi tornare al lavoro senza perdere tempo.
Un branco di ragazzini prese l’abitudine di tampinare lui e il bambino, allo scopo di schernire entrambi. Uno stava di vedetta sulla strada, e dava l’avviso agli altri: «Arriva il mongoloide!». Gli altri uscivano e accompagnavano Omero e il bambino, scimmiottando quest’ultimo.
La cosa andava avanti da circa un mese, quando Omero, prostrato dal vedere il suo bambino sempre più abbattuto da queste molestie, decise di porre termine alla persecuzione, in un modo o nell’altro.
Repentinamente si girò, pose la mano sulla spalla di uno dei ragazzini, e con voce ferma disse: «Basta, per favore».
I ragazzini scapparono via spaventati.
Sulla scena comparve un adulto, di circa quarant’anni. Era il padre del ragazzino sul quale Omero aveva posato la mano. Si diresse baldanzoso verso Omero e lo apostrofò: «Non permetterti di mettere le mani addosso a mio figlio, mongoloide!». E accompagnò il gesto con una spinta sul petto di Omero.
I due si guardarono per un attimo negli occhi, e l’uomo capì di aver sbagliato.
Non fece in tempo a scansare la mano di Omero, grande come un badile, che gli si abbatté dolorosamente sul collo. Fece il gesto di scappare, ma ormai era stato afferrato saldamente, e non ebbe più modo di difendersi.
Tutto accadde in pochi secondi, forse in mezzo minuto. Omero tenne la testa dell’uomo per i capelli e la fece sbattere violentemente sul muro di recinzione di una casa, più volte, fino a quando fu ricoperta di sangue.
Poi sollevò di peso l’uomo, come se fosse un fantoccio, e lo depose sulle punte che stavano sulla parte superiore di un cancello metallico, due delle quali gli si infilarono sotto il mento. Omero tirò verso giù in modo che le punte, attraversato il cranio, raggiunsero la parte superiore di esso.
Poi Omero prese in braccio suo figlio, che aveva assistito atterrito alla scena, lo portò a casa e lo consegnò alla moglie, pregandola di rassicurarlo.
Preparò una piccola borsa, nella quale mise uno spazzolino da denti, un tubetto di dentifricio, un cambio di biancheria e pochi capi di abbigliamento.
Si sedette sul letto, e pianse.
Poi prese il suo libro preferito (Un anno sull’altipiano) e lo mise nella borsa che aveva preparato.
Quando i carabinieri arrivarono a casa sua, lo trovarono già pronto, che li aspettava seduto su un gradino.