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La strana storia di Paola B.

La strana storia di Paola B.

Paola B. scomparve la notte del 16 aprile 1997.

La mattina dopo, la sua scomparsa fu denunciata dal marito Marco F. nel commissariato di *******.

Raccontò che la moglie aveva riaccompagnato a casa il figlio A., di cinque anni, dopo la lezione di nuoto. Successivamente era uscita di casa, affidando il figlio ad una vicina e lasciando un biglietto per il marito nel quale era scritto che sarebbe andata a cena a casa del­l’amica Daniela S.

Il marito si svegliò intorno alle sei del mattino, constatò che la moglie non era tornata; telefonò a Daniela S. e questa gli riferì che Paola B. era effettivamente stata a casa sua, ove aveva cenato e si era trattenuta sino a mezzanotte. A quell’ora era andata via.

La polizia trovò l’autovettura di Paola B. regolarmente parcheggiata e chiusa a chiave davanti alla casa di Daniela S. L’autovettura fu aperta ed esaminata accuratamente, ma l’esame non fornì esiti utili per le indagini.

Le ricerche proseguirono per un anno, senza successo.

Questa storia mi fu raccontata nel mio ufficio la sera del 14 aprile 1998, da una persona che volle restare anonima. Mi disse soltanto che non era il marito né un pa­rente di Paola B., ma era interessato a sapere che cosa le fosse successo. Doveva trattarsi di un interesse molto forte, perché quella persona concluse il suo discorso estraendo da una borsa dieci mazzette di biglietti da centomila lire, ciascuna formata da cento esemplari. Cento milioni di lire per accettare l’incarico di indagare sulla vicenda, con la promessa di altri cento se avessi scoperto la verità, ed ulteriori trecento se avessi trovato Paola B. viva.

Ovviamente accettai, anche se non ero affatto ottimista.

Pensavo, infatti, che si trattasse di un’impresa disperata.

Il mio anonimo cliente aveva preteso che nessuno sapesse della sua esi­sten­za, cosicché, per giustificare la mia entrata in scena, dovetti inventarmi una storia.

Mi presentai al marito di Paola B. e gli dissi che ero un investigatore pri­vato (questo era vero, ovviamente), che conoscevo la storia della scomparsa di Paola B. dai giornali, mi aveva appassionato, ed ero disposto ad indagare sulla vicenda a mio rischio e pericolo. Mi avrebbe pagato una somma modesta (dissi venti milioni, ma ero disposto a scendere), solo se avessi tro­va­to la moglie, viva.

Marco F. mi trattò con inattesa ostilità. Capii che il rapporto con lui non aveva futuro e che mi conveniva cambiare aria. Non era stato tempo perso, comunque: avevo capito che a Marco F. non interessava un fico secco ri­trovare la moglie, e forse egli aveva addirittura l’interesse contrario.

Andai dal padre di Paola B. Era ricoverato in ospedale, malato terminale di cancro. Ciò nonostante, mi ascoltò con attenzione, e sorrise quando gli raccontai dell’incontro con Marco F. Mi spiegò come, per quanto gli era parso, tra Marco F. e Pao­la B., al momento della scomparsa di quest’ultima, l’amore fosse appassito da tempo. Nulla sapeva su eventuali relazioni ex­tra­co­niugali dell’uno o dell’altra, ma immaginava che qualcosa ci dovesse essere, o che stesse per esserci. A me l’ipotesi sembrò verosimile, perché sapevo, per mia esperienza, che vi era una persona (il mio misterioso cliente) disposta a spende­re una somma di denaro spropositata per ritrovare Paola B., e avevo pochi dubbi sul fatto che solo un amante appassionato avrebbe potuto sbilanciarsi in tal modo (ciò nondimeno, il mistero del mio cliente mi attraeva almeno quanto quello della scomparsa di Paola B. La somma messa sul tappeto dal mio cliente mi era sembrata abnorme anche per una persona innamorata. Mi sorprendeva soprattutto l’entità dell’ac­con­to: una persona razionale non avrebbe offerta una somma così ingente, sapendo che le possibilità di successo erano minime e che pertanto, con ogni pro­babilità, essa sarebbe stata spesa invano).

Il padre di Paola B. fu sin troppo cordiale, viste le sue condizioni, ma nem­­meno lui accettò di incaricarmi della ricerca di Paola B. La sua vita si stava spegnendo, e le speranze di ritrovare la figlia erano pari a quelle di ritrovare la salute. Insistere era inutile, me ne andai dall’ospedale pieno di tristezza per lui e per me. Rinunciai anche a far visita alla madre di Paola B. Avevo un altro piano.

Cercai Daniela S. Le dissi che il padre di Paola B. mi aveva incaricato di scoprire la verità sulla scomparsa della figlia. Daniela S. mi sembrò scettica, e comunque non mi aiutò in alcun modo. Estenuata da lunghi interrogatori subiti da poliziotti e magistrati, riteneva di avere già dato, e a me non volle concedere nemmeno gli spiccioli.

Fui messo presto alla porta, e non feci nemmeno resistenza.

Ero sfiduciato. Appena il portoncino fu chiuso alle mie spalle, mi ci ap­poggiai con tutta la schiena e la testa, e così rimasi alcuni minuti come in ca­talessi (stavo riflettendo, ma il mio cervello era così intorpidito che mi sembrava simile al motore di una vecchia automobile con la batteria scarica, quando si gira la chiave e non mette in moto, e più provi e più il tentativo appare disperato, il motorino d’av­via­mento finisce col rantolare e ormai sai che non c’è nulla da fare, ma prosegui un po’ per rabbia e un po’ per dispe­ra­zione).

Infine me ne andai.

La notte in cui Paola B. era scomparsa erano in servizio solo undici tassisti, e tutti erano stati interrogati dalla polizia entro quarantott’ore dal momento in cui Daniela S. diceva di aver salutato l’amica che andava via. Tutti avevano escluso di aver accompagnato donne sole tra mezzanotte e le sei. Quattro avevano accompagnato coppie, ma nessuno aveva riconosciuto Paola B. La polizia era stata particolarmente scrupolosa, perché risalì ai numeri di telefono dai quali erano partite le chiamate per avere i quattro taxi (o, meglio, tre, perché uno aveva fatto due corse), e fu pertanto in grado di iden­tificare tutti i passeggeri di sesso femminile, nessuno dei quali, evi­den­te­mente, era Paola B.

Stetti qualche minuto di fronte al palazzo in cui abitava Daniela S., al­ma­nac­cando sulla possibilità che Paola B. avesse indossato abiti maschili prima di uscire dal palazzo, e avesse preso un taxi fingendosi un uomo. L’ipotesi mi parve flaccida, e stavo per abbandonarla, quando attraversai la strada e diedi un’ultima occhiata al palazzo dal quale ero appena uscito. Notai che al terzo piano vi era una finestra dietro la quale stava una tenda. La luce era accesa e dietro la fi­nestra vidi per qualche istante le sagome di due persone. Riconobbi la finestra del soggiorno di Daniela S., nel quale ero stato sino a poco prima. Infatti mi trovavo accanto ad un bar, la cui insegna luminosa di colore giallo avevo visto chiaramen­te dall’appartamento di Daniela S. Solo che allora la tenda era aperta.

Mi parve strano, non tanto che Daniela S. avesse chiuso la tenda dopo aver­mi congedato, quanto il fatto che mi avesse taciuto che nell’ap­par­ta­mento fosse presente un’altra persona. Sapevo che Daniela S. viveva sola, cosicché la persona che stava in casa sua in quel momento doveva essere un ospite occasionale, e, a meno che fosse entrata fulmineamente in casa subito dopo la mia uscita, era stata in casa durante la mezz’ora scarsa che era du­rato il mio colloquio con Daniela S. Certo poteva essere una vicina entrata in casa di Daniela S. dopo che io ne ero uscito, ma… no! Ora ricordo: avevo poggiato la nuca sul portoncino dell’appartamento, ed avevo udito due voci di­stinte. La cosa, incredibilmente, non aveva suscitato la mia curiosità, forse perché, stanco e depresso com’ero, avevo attribuito inconsapevolmente a quelle voci una diversa provenienza. Ripensandoci, però, era chiaro che ve­nivano dal­l’ap­­partamento di Daniela S., se non altro perché in ogni piano di quella palazzina c’erano solo due appartamenti, uno di fronte all’altro. Non esistevano appartamenti adiacenti a quello di Daniela S., dai quali quelle due voci distinte avrebbero potuto provenire, senza contare che il suono di quelle voci era troppo nitido (perché non l’avevo notato prima?) per pensare che fosse giunto a me dopo aver attraversato una parete.

Restai lì sino alle due di notte. Nel palazzo entrarono sette persone, e nes­suna uscì.

Andai via di buon passo.

La mattina dopo parcheggiai il mio camper quasi di fronte all’ap­par­ta­men­to di Daniela S., dall’altro lato dalla strada. Non mi fu possibile stare esattamente di fronte, in quanto avrei dovuto occupare un parcheggio ri­ser­va­to a disabili. Fui in grado, ad ogni modo, di occupare una posizione tale da con­sentirmi di piazzare una telecamera fissa che riprendesse, 24 ore su 24, la finestra del soggiorno della casa di Daniela S.

Passarono così 22 giorni senza che accadesse nulla di rilevante. Co­min­cia­vo a sentirmi un po’ cretino, quando accadde qualcosa.

Ogni mattina dei giorni feriali Daniela S. usciva di casa alle sette per an­dare al lavoro, ed ogni mattina buttava in un cassonetto a pochi metri dal mio camper un sacchetto contenente spazzatura. Mi risultò facile in­di­viduare il sacchetto gettato da Daniela S., in quanto questa non utilizzava i comuni sacchetti grigi, ma i sacchetti della spesa di un certo supermercato.

Raccolsi l’immondizia di Daniela S. per ventuno giorni di seguito, e ne esaminai il contenuto (ogni professione ha i suoi inconvenienti. D’altra parte molti sostengono che il nostro è un mestiere poco pulito).

Giunsi alla conclusione che Daniela S., a dispetto della sua im­pres­sio­nante magrezza, era un’egregia mangiatrice. Inoltre, leggeva ogni giorno due quotidiani, uno locale ed uno nazionale.

Era poco per supporre la presenza, in casa sua, di una persona non di­chiarata. Ci sono lettori accaniti, e persone magre grazie al verme solitario.

Sennonché, il ventiduesimo giorno trovai nel sacchetto della spazzatura due tampax usati. Nulla di strano, se non per il fatto che avevo catalogato materiali analoghi tra il nono e il tredicesimo giorno del mio appostamento.

Dunque Daniela S. aveva avuto due mestruazioni distanziate tredici giorni l’una dall’altra, oppure ospitava in casa un’altra donna in età fertile. Doveva trattarsi di una persona che non usciva mai di casa, perché in quei ventidue giorni avevo ripreso ed individuato tutte le persone che uscivano regolarmente da quel palazzo, ed ero in grado di dare un nome e cognome a ciascuna di esse. Erano tutte persone che abitavano in altri appartamenti di quel palazzo, con la sola eccezione di un ragazzo di una trentina d’anni, che per quattro mattine era entrato nel palazzo subito dopo che ne era uscito il signor G., e ne era riuscito dopo due-tre ore, verosimilmente dopo essersi intrattenuto con la moglie del signor G.

Stavo riflettendo sui piccoli segreti delle persone, e su come sia facile sco­prirli, anche senza volerlo, quando Paola B. si affacciò alla finestra del sog­giorno di Daniela S. Restò pochi secondi, ma la riconobbi imme­dia­ta­mente. Il mio cliente mi aveva consegnato numerose fotografie di Paola B., e numerose altre me ne ero procurate. Era una donna dalla bellezza non co­mune, che nasce­va dagli occhi e si estendeva alla bocca, capace di sorrisi in­cantevoli. Aveva compiuto trentadue anni il giorno in cui era scomparsa.

Erano passate da poco le otto del mattino, e il mio lavoro era terminato. Avevo il video che dimostrava l’esistenza in vita della persona che ero stato in­­caricato di trovare, e sapevo dove si trovava quella persona. La notte in cui era scomparsa, Paola B. non aveva, verosimilmente, abbandonato l’ap­par­­ta­mento di Daniela S. Forse non lo aveva abbandonato nemmeno dopo, e dunque era chiusa da più di un anno in quell’appartamento. Restava da ca­pire perché tutto questo. Ero sbalordito, e mi misi a pensare freneticamente. Dovevo decidere se comunicare subito al mio cliente il raggiungimento del­l’o­bietti­vo e quindi incassare la somma promessa, oppure cercare prima di par­lare con Paola B. e farmi spiegare le ragioni del suo strano com­por­ta­mento.

Ero molto allettato dalla prima possibilità. Potevo incassare e finire in bellezza, avevo quasi sessant’anni e settecento milioni in banca, mi sarei potuto ritirare per godermi il meritato riposo.

Scelsi la seconda, non per banale curiosità, ma perché quella storia mi aveva tolto la serenità. Mi inquietava, in particolar modo, la figura tenebrosa del mio cliente, la sua straordinaria, inspiegabile generosità e la sua os­ses­siva riservatezza.

Io dovevo sapere, perché sentivo di non poter dare al mio cliente le in­for­mazioni che voleva, senza aver prima saputo in che modo le avrebbe impiegate.

Quella sera attesi con ansia il ritorno di Daniela B. Cinque minuti dopo che ella fu scomparsa nell’androne del palazzo, stavo bussando rumo­ro­samente alla sua porta (il campanello, forse c’era, non ricordo, ma quel che dovevo fare richiedeva un’energica bussata).

Daniela S. chiese chi fosse, ma senza aprire. «Sono A. M.», dissi, «e ho qual­­cosa da mostrarle». Sventolai una fotografia di fronte allo spioncino, ritraeva Paola B. che si era affacciata alla finestra quella mattina.

Daniela S. mise il catenaccio ed aprì la porta quel tanto che bastava per con­sentirmi di infilare la foto. Non le diedi tregua, e subito dissi: «io devo par­lare immediatamente con la persona ritratta da questa foto. Se non lo farò io, lo farà la polizia tra cinque minuti».

Dopo qualche secondo di silenzio, la porta si spalancò, e Daniela S. mi in­vitò ad entrare. Mi fece sedere in una poltrona del suo salotto, e si allon­tanò. Tor­nò dopo qualche minuto, insieme a Paola B. Era più bella che nelle foto, e appariva molto spaventata. Mi guardò fisso negli occhi e mi chiese: «chi la manda?». «Suo padre», dissi, ma subito ella rispose: «non è vero. Mio padre è morto». Capii in quel momento che Paola B. stava fuggendo da qualcuno, e presentii che fuggiva dal mio cliente.

Chi fa la mia professione è abituato a mentire, non per cattiveria, ma per ne­­­cessità. Fui pronto ad assumere l’atteggiamento imbarazzato di chi è stato sor­preso in flagrante mendacio, e confessa subito la sua colpa, quasi per li­be­rarsi la coscienza: «è vero», risposi, «suo padre non ha voluto incaricarmi, mi dispiace se è morto, non lo sapevo. Mi sono buttato in questa storia pensando di poterci guadagnare qualcosa, poi ho visto che suo marito se ne infischiava di lei, questo mi ha offeso, e ho deciso di trovarla, credo per ven­detta. Ora ho scoperto che lei è scomparsa volontariamente, e sono pronto a tenere il segreto, se vuole, però voglio sapere perché. Mi dica perché, ed io me ne andrò e mi dimenticherò di lei».

Mi guardarono entrambe con sospetto, ma forse fui convincente, o forse il desiderio di credermi era troppo forte. Fu così che la storia mi fu rac­con­ta­ta, con i particolari.

Un anno prima della sua scomparsa, Paola B. aveva conosciuto Igor T., in­­dustriale di quasi cinquant’anni, uomo ricco e dai modi raffinati, che si era invaghito di lei e aveva preso a corteggiarla in modo assiduo. Paola B. si era lasciata con­quistare dalla dolcezza dell’uomo, complici un matrimonio en­trato in crisi dopo la nascita del figlio, ed una relazione sempre meno clan­de­stina intrattenuta dal marito con una collega d’ufficio.

Dunque Paola B. ed Igor T. divennero amanti, e per qualche mese la vita di Paola B. fu trasformata in meglio, perché, dopo tanto tempo, amava e si sentiva amata (pazienza se l’oggetto e la fonte di quell’amore non erano il marito. Se l’era cercata, dopotutto).

Purtroppo l’amore di Igor T. ebbe uno sviluppo infausto, e si trasformò in os­sessione. Si separò rapidamente dalla moglie, tacitata con una somma im­por­tante, e pretese che Paola B. facesse altrettanto col marito. Sennonché Paola B. cominciava a percepire l’evoluzione del sentimento di Igor T., che si era ma­nifestata in varie forme preoccupanti, e soprattutto in una soffo­cante gelosia, cosicché divenne titubante, ed esitava a consegnare la sua vita nelle mani di Igor T.

Finì che l’incubo prese il posto dell’amore, e Paola B. ebbe paura dell’uo­mo che sino a poco prima aveva creduto di amare. Prima cercò di prendere tempo, e quando egli — ormai preda della patologia, ma non per questo divenuto stupido — le pose un ultimatum, gli dichiarò che intendeva interrompere la relazione.

Ciò dovette compromettere definitivamente le capacità mentali di Igor T.

La mattina del giorno in cui Paola B. era scomparsa, Igor T. le aveva esibito una pistola, preannunciando l’intenzione di uccidere il marito e il figlioletto, per liberarla dei vincoli che le impedivano di unirsi a lui.

Paola B., comprensibilmente terrorizzata, si consultò con Daniela S., la sua migliore amica. Giunsero insieme alla conclusione che non c’era modo di fermare Igor T. con una denuncia alla polizia, posto che nemmeno il suo ar­resto, ammesso che fosse stato disposto, sarebbe stato sufficiente per impedirgli, prima o poi, di attuare la sua minaccia. Non restava per Paola B. che scomparire improvvisamente, nella speranza che Igor T., sparito l’og­getto del­­le sue morbose attenzioni, si sarebbe acquietato, in qualche modo.

Il piano delle due amiche, nella sua semplicità, andò a buon fine, perché la po­li­zia indagò su tutto il mondo a partire dall’androne del palazzo ove abitava Daniela S., ma nessuno pensò mai di perquisire l’appartamento.

Mi fu subito evidente che Igor T. era il mio cliente. Me ne sarei accertato rapidamente, ma si trattava di un semplice scrupolo. La storia raccontatami da Paola B. dissolveva ogni mistero sul suo comportamento, che sino a quel momento mi era apparso così singolare.

Mi congedai dalle due donne dopo aver promesso solennemente di ser­ba­re il silenzio sulla storia; ciò che era mia intenzione, ma sino ad un certo punto.

Evidentemente non potevo prendere in considerazione l’ipotesi di rive­lare la storia (la parte di essa che non conosceva, evidentemente) al mio cliente psicopatico, rendendomi così possibile complice di omicidi.

Do­vevo solo decidere se rivolgermi alla magistratura o se cercare di ri­sol­vere la questione da solo.

Non ebbi molto tempo per pensarci, perché la mattina dopo il mio cliente mi chiamò, e mi chiese se avessi novità da comunicargli. Risposi pron­tamente di sì, e gli diedi appuntamento per quella sera nel mio ufficio.

Venne come la prima volta a tarda sera, con un’aria triste e al tempo stes­so un po’ seccata, come se dovesse fare qualcosa di malavoglia.

«Buonasera signor T.» gli dissi, per entrare subito in argomento.

Egli non mostrò la minima sorpresa. «Mi dica quello che ha scoperto, per fa­­vore», disse con tono vagamente risentito, e mi fissò negli occhi.

Ricambiai lo sguardo fisso, e risposi bruscamente: «non le dirò un bel nul­la, se prima non mi dice perché sta cercando quella persona».

Mi scrutò per un attimo, e dai suoi occhi capii che aveva capito tutto, e che qualcosa di decisivo sarebbe accaduto da lì a poco.

«Signor M.», disse con voce carezzevole, «le è stato proposto un incarico molto ben retribuito, a condizione che lei fosse estremamente riservato. Lei ha accettato, ed ora, in violazione di un obbligo liberamente assunto, non solo ap­palesa un’i­nam­missibile reticenza sull’esito della sua ricerca, per la quale è stato profumatamente pagato, ma pretende di ficcare il naso nei miei affari, e la sua indiscrezione è tale, per quello che posso capire, da spingerla sino a voler giudicare la bontà dei miei fini, e forse anche la purezza del mio cuore. Ma vede — e qui sospirò profondamente —, io capisco, capisco che questo rientra nella debolezza del­l’uomo. Tutti noi vogliamo giudicare e non vo­gliamo essere giudicati. Vogliamo giudicare, perché in tal modo affer­miamo la nostra superiorità su coloro che giudichiamo, e non vogliamo essere giudicati, perché rifiutiamo l’idea di riconoscere la nostra inferiorità nei confronti di coloro che ci giudicano. Ebbene, io le chiedo ora di essere forte, e di compiere un atto di umiltà. Rinunci alla sua pretesa, signor M., ed io dimenticherò la sua scortesia. Mi dica ora quello che mi interessa». Mentre diceva questo, aveva estratto da una tasca interna della giacca un libretto di assegni, aveva compilato un assegno e l’aveva staccato dal li­bretto. Quando finì di parlare, mi consegnò l’assegno con un lieve sorriso.

Lessi l’assegno. C’era scritto: lire duemiliardi, tutto attaccato.

Confesso: ebbi un’esitazione. Sapevo che quella questione non poteva es­sere risolta col denaro, e che, anzi, più denaro avessi preso, più sarei stato complice della follia di quell’uomo.

Però esitai, ed egli lo capì subito, e probabilmente si illuse di aver riaf­fer­mato quella superiorità che, secondo lui, io volevo sottrargli.

Ci fu silenzio per qualche minuto, io superai il mio sbandamento, assunsi un’aria desolata e gli restituii l’assegno.

«Mi spiace, signor T.», replicai, «il denaro può molto, e nessuno lo sa me­­glio di lei, che ne ha tanto, e tanto può. E tuttavia, il fatto che lei sia tanto in­felice, a dispetto di tutto il suo denaro, è un esempio illuminante dei limiti del potere che il denaro ha. Quella donna, signor T., non l’ama più, si ras­segni. La lasci in pace. Non tormenti se stesso e gli altri. Lei è arrivato sul­l’or­lo di un precipizio, e deve scegliere se andare avanti e finire nell’abisso, oppure comportarsi da persona ragionevole e tornare indietro».

Mentre dicevo questo, i lineamenti di Igor T. si alterarono. Egli non riusciva più a controllare il suo disappunto, ed io temevo che esplodesse la sua reazione. Ripose con cura l’assegno che gli avevo restituito e rimise il blocchetto nel­la tasca dalla quale lo aveva prelevato. Con mossa repentina, infilò la stessa mano (la sinistra) sotto la giacca, e la tirò fuori piena di una pistola.

Ne fui sorpreso.

Ricordai con terrore che avevo riposto la mia pistola nella cassaforte, cosicché non ero in grado di prenderla in tempi accettabili.

«Non mi lascia scelta, signor M.», riprese egli con una smorfia, «le ho dato la possibilità di essere ricco, e lei l’ha stoltamente rifiutata; ora mi dica quello che ha scoperto, sennò perderà il bene più prezioso». Diceva questo, e intanto puntava la pistola verso di me, e prendeva la mira come se volesse spa­rarmi esattamente tra i due occhi. Avevo la pistola a circa trenta cen­ti­metri dal volto, vidi che si trattava di una calibro nove corto, e vidi la fine imminente della mia vita.

Non sapevo che cosa fare, stavo per sentirmi male, e inventai. Finsi di star male, portai la mano al petto e mi accasciai sulla scrivania.

«Cerchi almeno di morire con dignità, infame», gridò lui alzandosi in piedi. Subito dopo udii lo sparo.

Epilogo

Che sentimento potente, l’amore.

Scrisse qualcuno — non so chi, un poeta, credo — che i migliori mo­men­ti dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia, dove tu piangi e non sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale.

In realtà la sventura è questa: che l’amore svanisce, come un bel sogno improvvisamente interrotto dal risveglio, ed è inutile che uno richiuda gli occhi sperando di riaddormentarsi e riprendere il sogno.

Il povero Igor T. non aveva accettato il risveglio, e decise di addor­men­tarsi per sempre. Quel colpo di pistola, che avevo immaginato diretto alla mia testa, egli se lo era sparato in bocca.

Ci portarono insieme in ospedale. Era in condizioni disperate, fu operato alla testa ma non sopravvisse. Io uscii qualche giorno dopo, in tempo per par­tecipare al suo funerale.

C’era anche Paola B., quella mattina, bella come non mai, quasi che fosse stata resuscitata dalla morte di lui.

Scrissero tante cose ingiuste sullo sventurato Igor T., ma in fondo il suo torto fu solo questo, di non aver accettato una vita senza amore.

Io spero che ora riposi in pace.