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Linciaggio

Linciaggio

Muntari Kamumo viveva felice in un villaggio nel centro dell’Africa, quando cominciò ad essere posseduto sempre più frequentemente dai demoni.

Lo stregone cercò di scacciarli, senza successo. I genitori allora misero insieme una bella sommetta e la diedero ad un suo cugino, perché se lo portasse con sé in Europa, dove si diceva esistessero stregoni molto più potenti di quello locale.

Sbarcarono in Italia alla fine di un caldissimo mese di luglio, più morti che vivi.

Kamumo e il cugino presero strade diverse, e non si incontrarono mai più.

Dopo qualche peripezia, Kamumo trovò il suo ubi consistam in un paesotto del bergamasco, ove inizialmente lavorò come manovale.

Sennonché i demoni di Kamumo tornavano sempre più spesso, e non gli consentirono di tenersi il lavoro.

Le sue stravaganze gli attirarono però la benevolenza dei locali, i quali, pur considerandolo una sorta di scemo del villaggio, finirono per volergli bene. Grazie alla loro carità Kamumo viveva discretamente, faceva pasti regolari ed aveva un alloggio quasi decoroso.

Tutto finì un giorno di agosto, di primo mattino.

La sera prima era stato trovato il cadavere straziato di un bambino undicenne, nudo.

Il padre, vicesindaco del paese, subito dopo averlo visto ebbe un infarto, e fu ricoverato in ospedale.

I carabinieri passarono la notte ad interrogare decine di persone. Qualcuno fece il nome di Kamumo.

L’irruzione avvenne alle prime luci dell’alba. La topaia di Kamumo fu messa sottosopra, e saltarono fuori i vestiti del bambino.

Kamumo era in preda ai suoi demoni: a malapena si rese conto che qualcuno gli aveva messo le manette e lo portava via.

Due ore dopo, un centinaio di persone armate si presentarono davanti alla caserma ove Kamumo era stato trattenuto, in attesa di istruzioni del magistrato.

Il fratello maggiore del padre del bambino ucciso intimò da fuori al comandante della stazione: «Dacci il negro, Giovanni!».

«Non posso Gino, sai che non posso», rispose il maresciallo, che del richiedente era stato compagno di banco per tutti i cinque anni delle scuole elementari.

Ma egli sapeva bene che la risposta non avrebbe appagato Gino.

Non fu difficile per i cento seguaci di Gino demolire la porta della caserma, entrare, legare come salami i quattro carabinieri — che avevano le armi ma non si sentirono di usarle contro quella folla — ed impadronirsi dell’oggetto dei loro desideri.

A Kamumo furono legate le mani dietro la schiena.

Ad un gesto di Gino l’uomo fu legato per i piedi dietro un potente gippone.

Ad un gesto successivo, il guidatore partì, tra le urla deliranti della folla. Prima lentamente, poi accelerando progressivamente, trascinò il misero fantoccio per le strade del paese.

Qualcuno, per l’orrore, si chiuse in casa, molti si godettero lo spettacolo, alcuni incoraggiando i protagonisti di esso.

La follia andò avanti per circa due ore.

Quel che restava del corpo di Kamumo fu abbandonato davanti alla caserma, quasi a volerlo restituire alla giustizia ufficiale.

Questa arrivò solo cinque anni dopo, quando Gino fu condannato all’ergastolo. Cinque suoi amici, che avevano scelto il rito abbreviato, se l’erano cavata con venti anni di reclusione.

I genitori di Kamumo avevano intanto riavuto quello che era stato il loro figlio, finalmente liberato dai demoni.