Parametri vs tariffe
- Ottobre 05th, 2012
- Agostino Mario Mela
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Sino all’entrata in vigore del decreto legge 4 luglio 2006 n. 223 (il cosiddetto Decreto Bersani) il contratto d’opera professionale tra un avvocato ed un suo cliente poteva prevedere un compenso qualsiasi, col solo limite dell’inderogabilità dei minimi di tariffa.
Le tariffe professionali valevano per tutte le professioni protette (esercitabili solo dagli iscritti ai relativi albi). Per gli avvocati, consistevano nell’indicazione di compensi per specifiche frazioni di attività giudiziale e stragiudiziale, che variavano in base a scaglioni di valore (per il settore civile e amministrativo) e, per l’attività giudiziale, a seconda dell’autorità davanti alla quale si svolgeva il giudizio.
I compensi dell’attività giudiziale erano distinti in diritti di procuratore, in misura fissa a parità di scaglione, e onorari di avvocato, che invece prevedevano un minimo e un massimo.
Il sistema tariffario risaliva all’epoca fascista, e precisamente al regio decreto legge n. 1578 del 17 novembre 1933.
Le tariffe erano elaborate dai consigli degli ordini locali e successivamente dal consiglio nazionale forense, e soggette all’approvazione del ministro della giustizia.
A partire dal 1958 esse sono contenute in decreti ministeriali che approvano deliberazioni del consiglio nazionale forense.
L’ultima tariffa forense è contenuta in un decreto del ministro della giustizia dell’8 aprile 2004, individuato dal numero 127. Qui l’atto è sostanzialmente un regolamento governativo, e il ruolo del consiglio nazionale forense è limitato alla funzione di proponente. Tale natura, riconosciuta dalla giurisprudenza già al precedente decreto (il n. 584 del 1994), aveva conseguenze non trascurabili, tra le quali soprattutto questa: la sua violazione comportava la possibilità di ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 cpc).
Questa situazione comportava per gli avvocati almeno due vantaggi: una limitazione della concorrenza tra avvocati, posto che tutti erano tenuti a rispettare i minimi di tariffa; la possibilità di pretendere comunque dal cliente un compenso almeno pari a quello minimo previsto dalle tariffe, a dispetto di eventuali convenzioni contrarie, considerate nulle in parte qua.
D’altra parte, le tariffe valevano anche per le liquidazioni giudiziali a carico del soccombente, e vincolavano il giudice, che era per di più tenuto a conoscerle indipendentemente dalla produzione del relativo decreto ministeriale, in virtù del principio iura novit curia. Questo però era un vantaggio principalmente per il cliente, e solo di riflesso per l’avvocato.
Col decreto Bersani viene soppressa l’inderogabilità delle tariffe. Le parti diventano libere di stabilire un compenso inferiore a quello minimo risultante dalle tariffe, purché lo facciano con atto scritto: «sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali» (art. 2233 comma 3 cc).
Resta però il vincolo delle tariffe per le liquidazioni giudiziali delle spese di lite (con la possibilità di impugnare queste ultime per violazione delle tariffe), ma soprattutto per i frequentissimi casi nei quali il compenso non viene determinato dalle parti in forma scritta.
Nel 2012 il sistema delle tariffe viene però scardinato, in due fasi.
La prima è compiuta con l’art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, il quale stabilisce l’abrogazione delle «tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico» (comma 1) e la liquidazione giudiziale dei compensi dei professionisti «con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante» (comma 2).
La seconda si perfeziona con l’entrata in vigore (il successivo 23 agosto) del decreto del ministero della giustizia n. 140 del 20 luglio 2012 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia).
L’articolo 1 del decreto ministeriale stabilisce che esso si applica in caso di mancanza di accordo tra professionista e cliente (il quale, come si è visto, nel caso degli avvocati deve essere scritto a pena di nullità).
La differenza importante tra tariffe e parametri è fissata dal comma 7 dell’articolo 1: «in nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso […] sono vincolanti per la liquidazione stessa».
Prima conseguenza: il professionista che ometta di stipulare col proprio cliente un accordo relativo al compenso, si consegna nelle mani del giudice che dovrà procedere alla liquidazione, in caso di controversia col cliente. I parametri non sono vincolanti; quel che il giudice stabilirà, il professionista dovrà tenersi. Il professionista, inoltre, perde verosimilmente la facoltà di ricorrere, in tale ipotesi, alla procedura ingiuntiva ex art. 633 cpc: i numeri 2) e 3), secondo una ragionevole interpretazione, sono stati implicitamente abrogati col nuovo sistema; resta il numero 1), che richiede la prova scritta.
Seconda conseguenza: posto che le norme ricordate sopra valgono pacificamente anche per la liquidazione delle spese a carico della parte soccombente in giudizio, aumenta l’alea (già elevata) connessa a tale liquidazione. Potrebbe diventare più frequente la vittoria di Pirro, consistente nella situazione di chi vince una causa ma ottiene una liquidazione delle spese di lite insufficiente a coprire le spese effettivamente sostenute per la propria difesa. I clienti che potranno permetterselo stipuleranno con i propri difensori accordi che trasferiscano su questi ultimi l’alea della liquidazione. Ci saranno avvocati che accetteranno di ricevere come compenso la somma liquidata dal giudice a carico della controparte, o addirittura una parte di essa.
Ciò premesso, è importante notare che nel sistema dei parametri le porzioni di attività per le quali sono indicati criteri di liquidazione sono più ampie di quelle prese in considerazione dal sistema delle tariffe.
Nel sistema delle tariffe è previsto ad esempio che spettino all’avvocato da dieci a quindici euro per ogni lettera, telegramma e comunicazione telefonica o telematica, mentre l’art. 3 del decreto sui parametri si limita a stabilire che «l’attività stragiudiziale è liquidata tenendo conto del valore e della natura dell’affare, del numero e dell’importanza delle questioni trattate, del pregio dell’opera prestata, dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente, dell’eventuale urgenza della prestazione. Si tiene altresì conto delle ore complessive impiegate per la prestazione, valutate anche secondo il valore di mercato attribuito alle stesse».
Nell’ambito giudiziale, la liquidazione avviene per fasi giudiziali, e non per singoli atti (salvo per quanto riguardo l’atto di precetto).
Dalle prime reazioni, sembra di capire che il sistema dei parametri non sia stato accolto con favore dalla maggior parte degli avvocati. Una delle ragioni di tale scarso entusiasmo sembrerebbe connessa a questo dato: qualcuno pare si sia preso la briga di fare calcoli, attraverso i quali sarebbe giunto alla conclusione che, a parità di attività, il compenso previsto dal sistema dei parametri sarebbe inferiore, in media, di circa il 30% rispetto a quello previsto dal sistema delle tariffe.
Io ritengo senz’altro preferibile il sistema in vigore, per almeno quattro ragioni.
Prima ragione: penalizzazione degli avvocati disonesti.
Il sistema delle tariffe consentiva all’avvocato disonesto (figura rara quanto si vuole, ma non certo immaginaria) di approfittare della sua posizione di superiorità (di conoscenza) rispetto al cliente. Dopo essersi fatto incaricare di gestire una causa fornendo rassicurazioni a parole sull’esiguità del compenso, accumulava atti su atti, spesso inutilmente ripetitivi, e alla fine presentava al cliente sbalordito un conto esorbitante. Nella peggiore delle ipotesi il minimo di tariffa era sufficiente a garantirgli un lucro adeguato in danno del malcapitato cliente.
Seconda ragione: semplificazione.
Compilare una nota spese, nel regime delle tariffe, era esercizio estenuante (per quanto qualcuno lo ritenesse piacevole). Si sono formate biblioteche sul sistema tariffario. Oggi una nota si scrive in un minuto, magari sfruttando uno dei software che si trovano su internet. Questo risparmia un po’ di lavoro agli avvocati e rende possibile ai clienti avere un’idea di quanto potranno spendere, nei casi nei quali non abbiano stipulato il patto scritto sul compenso dell’avvocato.
Terza ragione: risparmio di carta, di spazio nei fascicoli delle cause e di tempo per chi deve leggere gli atti.
Dovremmo beneficiare di una sensibile riduzione dello sconcio di atti inutili scritti da certi avvocati al solo scopo di aggiungere un diritto in più nella loro nota spese.
Quarta ragione: accelerazione dei processi.
Il sistema dei parametri è un ottimo incentivo per gli avvocati che non abbiano stipulato un patto scritto per la determinazione dei loro compensi (ad esempio, tutti gli avvocati che lavorano in regime di patrocinio a spese dello Stato) a limitare la durata delle singole fasi processuali. Se so che la fase istruttoria mi viene pagata al massimo cento, mi guarderò bene, ad esempio, dal presentare liste di testimoni sovrabbondanti, il cui esame comporterà una riduzione del mio compenso medio per unità di tempo. Lo spurio e discutibile brocardo Dum pendet rendet sarà definitivamente accantonato. E’ vero che i tempi dei processi dipendono in minima parte dagli avvocati, ma tutto ciò che spinge verso prassi virtuose va visto con favore.
Perciò non credo che il tariffario meriti di essere rimpianto da alcun avvocato del ventunesimo secolo. Sapeva di stantio. Era un singolare rimasuglio di un mondo che non esiste più.