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Utero in affitto. Una visione distaccata

Utero in affitto. Una visione distaccata

Stamattina ho letto qui come la pensa sull’utero in affitto il mio amico Tiziano Solignani (o meglio, egli e qualcun altro, che non menziona).

La citazione che fa Tiziano è molto suggestiva; d’altra parte, è la stessa espressione ‘utero in affitto’ che sembra studiata apposta per suscitare riprovazione morale verso la pratica da essa designata. Ecco perché chi non condivide quella riprovazione preferisce usare un’espressione meno coinvolgente dal punto di vista emotivo: ‘maternità surrogata’.

Dal punto di vista giuridico, parlare di ‘affitto’ non è affatto appropriato. Non si tratta chiaramente di un contratto di locazione di una cosa, bensì di un contratto d’opera (per dirla in modo elegante: non una locatio rei, ma una locatio operarum).

Dalla donna che accoglie nel suo ventre il figlio altrui si pretende qualcosa di più che il “noleggio” del grembo. Deve fare un certo tipo di vita, evitare di assumere alcool, droghe, la maggior parte dei farmaci; sottoporsi a controlli regolari per verificare la buona salute del feto. Tutto finisce con l’estrazione del bambino formato, che viene consegnato ai suoi genitori, biologici o legali.

Forse se volessimo presentare questa pratica come particolarmente ripugnante potremmo assimilarla ad una vendita di cosa futura, nella quale il fatto sconvolgente è ovviamente che la cosa futura è un piccolo essere umano.

Dal punto di vista morale, non mi sembra affatto giustificata la condanna indiscriminata della maternità surrogata.

Le cose non sono mai così semplici, e qui mi sembra che lo siano ancora di meno.

Occorre distinguere. So che è faticoso, ma credo che ne valga la pena.

Mi sentirei di riprovare senza ulteriori discussioni la maternità surrogata solo in un caso del genere: una donna viene rapita, le viene installato un embrione nell’utero, e poi viene tenuta segregata sino al momento del parto, quando viene liberata (o magari uccisa, per evitare noie legali).

Qui però l’aspetto riprovevole non è tanto la maternità surrogata, quanto la riduzione in schiavitù della donna.

Se però la donna che assume l’obbligo di fare la “fattrice” è adulta e consenziente, credo ci sia da discutere, e non poco.

I cattolici (e non solo loro) hanno il vizio di voler dare prescrizioni agli altri (specie alle donne) su come usare il loro corpo. E’ un genere di invadenza che a me non piace, se rivolto a persone che sono pienamente capaci di autodeterminazione. Perciò non trovo nulla di sbagliato nel fatto che una donna, per generosità o per lucro, accetti di fare da “incubatrice” per il figlio altrui. E’ come se facesse la babysitter, solo che il bambino sta dentro di lei e non fuori.

L’unica situazione-tipo nella quale mi sembrerebbe necessario approfondire la discussione è quella nella quale la donna accetta di fare la mamma surrogata per estrema necessità. Non per potersi permettere belle vacanze, ma per sopravvivere. Per mangiare, ed eventualmente dar da mangiare ai propri figli. Qui capisco che possa venire la tentazione di un divieto, ma chi impone il divieto dovrebbe anche assumersi la responsabilità di dar da mangiare a quella donna, ed eventualmente ai suoi figli. Altrimenti sarebbe come dire: preferisco costringerti a morire di fame, piuttosto che lasciarti fare la mamma surrogata (pratica che può essere considerata degradante, ma anche il fatto di morir di fame ha i suoi aspetti profondamente negativi).

Va da sé che nel mondo ci sono milioni di donne che, piuttosto che morir di fame, preferiranno fare le mamme surrogate, a dispetto di ogni divieto, per quanto severamente sanzionato. Quest’ultimo, a ben vedere, va proprio a vantaggio delle donne in quella condizione, in quanto consentirà loro, di regola, di spuntare un prezzo più alto. Sono i vantaggi del proibizionismo.